Biennale di Venezia: in chiusura la 55^ Esposizione Internazionale

Sino al 24 novembre 2013 ai Giardini e all’Arsenale e in vari luoghi della città

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
03 novembre 2013 17:57
Biennale di Venezia: in chiusura la 55^ Esposizione Internazionale

di Niccolò Lucarelli VENEZIA- La 55^ Esposizione Internazionale d’Arte si svolge dal 1° giugno al 24 novembre 2013 ai Giardini e all’Arsenale, nonché in vari luoghi di Venezia. Edizione controversa curata da Massimiliano Gioni, che oscilla fra intelligenti innovazioni, e una superficialità concettuale a tratti però risollevata da un’alta qualità artistica e intellettuale. 88 i Paesi presenti - dieci dei quali, fra cui Angola, Bahrain, Kuwait e Tuvalu, per la prima volta -, ed è raddoppiato il numero degli artisti coinvolti.

Anche quest’anno, viene riproposta l’impostazione parallela fra l’Esposizione Internazionale, allestita negli spazi del Padiglione Centrale (Giardini) e dell’Arsenale, e i Padiglioni Nazionali. Il titolo, Il Palazzo Enciclopedico, prende le mosse dall’immaginaria sede museale teorizzata nel 1955 dall’artista italo-americano Marino Auriti e mai realizzata, che avrebbe dovuto contenere tutto lo scibile umano. Un’utopia creativa qui provocatoriamente cercata, spiega il curatore, per mostrare tutti i limiti che una Biennale comunque ha, per quanto completa cerchi di essere; è infatti impossibile riunire tutta l’arte contemporanea mondiale in un’unica esposizione.

Un limite tecnico imprescindibile, che implica l’adozione di un criterio nella scelta degli artisti da invitare. La novità di quest’anno, che in un certo senso segna un deciso cambio di direzione nella politica della Biennale, sta nell’aver aggirata la distinzione classica fra artisti professionisti e artisti dilettanti, utilizzando come unico criterio di scelta, la potenza evocativa dell’opera d’arte. Seguendo questa linea, si è potuto aprire la Biennale a un consistente numero di giovani artisti.

Il dualismo dentro-fuori è quantomai attuale in Italia, non soltanto a livello governativo, pertanto ha costituita una novità “politica” l’aver operate delle scelte sulla base non del nome ma della coerenza artistica in relazione al tema indicato dal curatore. Inoltre, con l’aggettivo Enciclopedico si è voluto puntare l’attenzione sull’oggetto-libro, un qualcosa che appartiene sempre meno al quotidiano, un po’ per la diffusione degli e-book, molto per la scarsa propensione alla lettura degli italiani.

A detta del curatore Gioni, dietro il titolo ispirato al progetto di Auriti, sta anche l’idea di collocare la Biennale lungo una prospettiva storica, che parte dalla seconda metà dell’Ottocento, e che riflette il pensiero di scrittori, filosofi, psicanalisti, occultisti; alla base dell’esposizione, il rapporto che l’arte contemporanea ha con il concetto d’immagine. La nostra società è ormai bombardata a ciclo continuo da immagini di ogni sorta, per lo più pubblicitarie, che cercano di suggerire visioni e modelli del presente, senza però chiavi di lettura.

L’arte, invece, riflette sul concetto di immagine come elemento di una realtà da indagare a fondo, fino ad arrivare all’elaborazione, da parte dell’artista prima e del pubblico subito dopo, di immagini interiori. Di modo che, sospeso sulla Laguna, c’è un vero e proprio mondo parallelo che rievoca l’esoterismo di William Beckford, del teosofo occultista Mérodack Sâr Pèladan, e persino del Granduca Francesco I de’Medici all’interno della sua Tribuna Nera. Una Biennale pensata per incoraggiare l’arte a reinventare il mondo lasciandosi guidare dal sogno e dalla fantasia.

Ma l’impressione è che la società contemporanea, quindi anche il mondo dell’arte, abbiano persa la capacità di sognare, in questa ipertrofia tecnologica che ha annullato il rapporto con gli altri, con la natura, cancellando quel senso del magico che solo il radicamento nel territorio può innescare. Il Palazzo Enciclopedico, pur nella divisione tematica annunciata dal curatore - all’Arsenale gli artisti dialogano con la dimensione del fantastico, mentre ai Giardini è il mondo reale ad essere tradotto per immagini -, all’interno delle singole aree tradisce una forte discontinuità nella qualità delle opere offerta ai visitatori.

Si parla di iper-realismo, ridefinizione dello spazio, nuovi approcci alla realtà; tante espressioni, che però difettano nella sostanza. Fa eccezione il reportage fotografico di Cindy Sherman, un’opera dal respiro antropologico che scava a fondo nell’espressionismo del corpo e del volto, creando una finzione scenica di gusto teatrale, nella quale il soggetto ritratto interpreta le varie sfumature dell’essere; erotismo, crudeltà, fragilità, androginia, sogno. Dalle fotografie di Sherman emerge ciò che l’arte contemporanea sembra aver lasciato da parte: l’uomo.

Interessante, - e forse profetica quanto un romanzo di Don DeLillo -, The universal addressability of a dumb thing, l’istallazione dell’inglese Mark Leckey, che riflette sulle alterazioni che la tecnologia apporta alla nostra relazione con la realtà degli oggetti. Nell’istallazione, si vagheggia come il confine tra reale e immaginario possa venire meno, e gli oggetti “magicamente” animarsi e divenire soggetto d’interazione, resi vivi da un’anima misteriosa. Oppure, beffardamente (visto che si tratta di un artista inglese), viene da chiedersi se non sia invece l’uomo a perdere la sua spiritualità intellettuale e a ridursi a semplice oggetto. A livello di partecipazioni nazionali, le riflessioni più interessanti di questa Biennale rimandano a esperienze tragicamente reali, quali i tanti conflitti mediorientali.

Toccante la presenza dei Padiglioni libanese e iracheno, che portano in Laguna la difficile esperienza della guerra e il tentativo di normalizzazione, un’arte a metà fra impegno politico e civile, comunque ricca di contenuti. Foto, disegni, pitture, che hanno a che fare con la normale realtà quotidiana, nel disperato tentativo di riafferrarla. L’arte al servizio della memoria, per non dimenticare, ad esempio, Sabra e Chatila, o le stragi quotidiane a Bassora e dintorni. Suggestivo anche il Padiglione siriano, che apre un dialogo artistico che coinvolge tutto il Mediterraneo, per superare le differenze politiche e religiose.

Un messaggio di distensione, che proviene, non dimentichiamolo, da un Paese dilaniato dalla guerra civile. Ben diversa la caratura di buona parte dell’arte occidentale. Deludente, in particolare, il Padiglione Italia - vice versa, curato da Bartolomeo Pietromarchi -, incentrato su sette dialoghi, ognuno dei quali si svolge fra due artisti, che nelle intenzioni dovrebbero essere altrettanti spunti per il recupero delle radici antropologiche, culturali e artistiche di un Paese allo sbando.

Invece, il Padiglione conferma il trend, con un’armonia artistica ancora da venire, e sembra quasi beffarda la presenza della Cupola di San Pietro riprodotta da Flavio Favelli; l’Italia è lontana anni luce dall’estetica rinascimentale e dalla sua profondità filosofica. Le sette dualità proposte dal curatore non trovano convincente risposta da parte degli artisti, al punto che l’identità nazionale ne emerge avvolta dal caos, come se il Paese fosse a noi estraneo, e l’unica dualità sia quella fra la casta e i cittadini comuni.

A nulla vale divertirsi con mattoni d’argilla, l’ossido ferrico, cubi di cemento e performance sugli alberi. Attuale, invece, per l’eternità, di Luca Vitone, opera che sensibilizza sulla pericolosità dell’amianto. Ma nel complesso, poca arte e tanto presenzialismo, per un padiglione che ricorda da vicino un cocktail party riuscito male. A dispetto del fascino che si sprigiona dalla tematica scelta da Gioni, nella sostanza ne risulta una Biennale all’insegna dell’incertezza e della disorganicità, che non riesce a sviluppare opere in grado di suscitare emozioni; proprio l’eccesso di tecnologia fa venire meno il concetto di opera d’arte, sostituendolo con l’impressione di trovarsi davanti a un esperimento tecnico, quasi una prova tecnica di trasmissione via cavo.

Com’è, oggi, il mondo degli artisti? Per citare Henry Miller, sembra un incubo ad aria condizionata, infarcito di luci al neon, megapixel, materiali sempre nuovi. Questo continuo rifugiarsi nella tecnica, esasperando la dimensione sperimentale del discorso artistico, maschera l’incapacità dell’arte contemporanea di relazionarsi con il mondo reale, che riduce a distillato di sensazioni, spazialità distorte, e vacui intellettualismi. Un approccio artistico lontano dal sentire dell’uomo, dai suoi bisogni e dalla sua anima.

L’impressione generale, aggirandosi per i Padiglioni di questa Biennale, è che l’arte contemporanea si stia allontanando sempre più dalla riflessione sull’estetica delle opere e dei concetti che propone. Da parte sua, Gioni non sembra curarsene più di tanto, poiché, in modo semplicistico, liquida l’estetica e il gusto citando una frase attribuita a Picasso secondo cui il gusto sarebbe “una questione da gelatai”. In realtà, l’estetica, attraverso la quale passa la dimensione umana delle opere d’arte, resta una questione imprescindibile anche nell’arte contemporanea, perché risponde a un bisogno dell’umanità di riconoscersi in un qualcosa che ne rispetti la misura; in estrema sintesi, quello che si è perso è il concetto della proporzione aurea, che coniuga bellezza materica e spirituale, che nessuna sperimentazione tecnologica sarà mai in grado di riprodurre.

La scomparsa quasi totale della figurazione dall’arte contemporanea, ha causata una frattura con il pubblico, sempre più in difficoltà nel seguire i percorsi degli artisti, ma sta anche assimilando l’arte a un mero processo di creazione laboratoriale, senza quell’afflato poetico ed estetico che l’ha caratterizzata sino a poco tempo fa. Il malessere che sta attraversando il mondo dell’arte, è però sintomatico della decadenza che colpisce tutti gli ambiti del pensiero umano, e a Massimiliano Gioni è comunque doveroso riconoscere il merito di aver data una decisa scossa a un ambiente tradizionalmente poco incline alle aperture, e di aver scelto un tema tanto affascinante quanto complesso, e che proprio per questo ha causato non poche difficoltà agli artisti.

Segno, come osservato sopra, di un affaticamento nell’ispirazione che però si riscontra un po’ in tutti gli ambiti culturali, non ultimo il teatro. Tuttavia, la riflessione innescata dal Palazzo Enciclopedico può rappresentare un buon punto di partenza per nuovi progetti artistici, concettualmente ed esteticamente maturi.

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